CONCORRENZA SLEALE, COSTI, PREZZO,TARIFFE E PREVEMTIVI. Concorrenza sleale Milano, dipendenti-soci-Costi-Prezzi-Agenzia IDFOX Since 1991
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Concorrenza Sleale-Costi-Prezzo-Indagini-dipendenti-dirigenti-competitors-Furto

Concorrenza Sleale-Costi-Prezzo-Indagini-dipendenti-dirigenti-competitors-Furto - CONCORRENZA SLEALE, COSTI, PREZZO,TARIFFE E PREVEMTIVI.

 

CONCORRENZA SLEALE-SPIONAGGIO INDUSTRIALE-COSTI-PREZZI-PREVENTIVI

 Quanto costa   un'indagine per  concorrenza sleale?

 Determinare un prezzo  preciso e’ complicato non conscendo le  indagini da svolgere poiché si basano su diversi fattori, come le indagini da svolgere, luogo in cui dovranno essere svolte ecc. comunque il costo minimo per le investigazioni  aziendali per concorrenza sleale-la tariffa oraria minimo e’ di euro 60 oltre iva e spese per agente coinvolto nelle indagini; mentre la tariffa  giornaliera  minima parte da euro 600 oltre iva e spese. Il servizio di indagini per concorrenza sleale mira a scoprire se all'interno della vostra azienda sono presenti dipendenti, soci, collaboratori o partner fiduciari che attraverso la fuoriuscita di materiale estremamente confidenziale ad esempio: brevetti, marchi, nuovi prodotti-servizi-tariffari ecc.  mettono a repentaglio la “vita” dell'azienda.

Quanto costa un investigatore privato a Milano? Scopri tariffe e prezzi e Preventivi. Richiedi preventivo Agenzia IDFOX Investigazioni dal 1991, Tel.02344223.

In linea generale la tariffa oraria applicata ad un'investigazione privata, per operatore ha un costo minimo di € 60 oltre IVA e spese escluse.

Costi orari e giornalieri degli investigatori privatia livello di tariffe , per un servizio efficace non si può scendere al di sotto di un minimo di 500 euro . I detective privati generalmente propongono tariffe giornaliere tra 500 e 1.000 euro , oppure tariffe orarie di circa 60 € all'ora per agente operativo.

 Agenzia IDFOX Srl- Since 1991.  Leader nel campo delle Investigazioni Aziendali  a Milano e su tutto il territorio nazionale ed estero.

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Quanto costa un investigatore privato a Milano? Come è facile intuire, gli investigatori privati a Milano hanno tariffe e prezzi variabili che si basano  sulla complessità delle indagini da svolgere. In linea di massima le investigazioni in ambito Privato-Aziendali  e famigliari  sono tra le più richieste ed i costi orari partono da un minimo di 50 euro ad un massimo di 80 euro per agente operativo.  A livello di tariffe, per un servizio efficace non si può scendere al di sotto di un minimo di 500 euro al giorno. I detective privati specializzati generalmente propongono tariffe giornaliere tra 500 e 1.000 euro.

          CONCORRENZA SLEALE - INVESTIGAZIONI AZIENDALI  Telef. 02344223

Concorrenza sleale consiste nella infedeltà di dipendenti, collaboratori, amministratori, ex dirigenti e competitors, come sancito dall’art.2105 del codice civile, per violazione obbligo lavoro  con assoluto  divieto  di trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con il datore di lavoro ed altresì di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.  Le indagini  per investigazioni aziendali – concorrenza sleale sono finalizzate a provare atti di concorrenza  portano ad avere prove legalmente utili al fine di far valere un proprio diritto facendo riferimento agli artt. 2599 e 2600 del codice civile e penale  dove si prevede che la sentenza che accerta il compimento di atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti per eliminarne gli effetti. 

L'agenzia IDFOX SRL ha esperienza investigativa “diretta” ultra trentennale,  maturata presso multinazionali operanti in svariati settori quale aeronautica, metalmeccanici, chimica, alta moda, oreficeria, elettrica ed elettronica, farmaceutica e della grande distribuzione, risolvendo brillantemente ogni incarico di fiducia, connessi alla tutela di beni, dai marchi e brevetti, concorrenza sleale e alla difesa intellettuale dei progetti, violazione del patto di non concorrenza, bonifiche telefoniche ed ambientali e tutela del patrimonio aziendale.

 Investigazioni aziendali: cosa sono

Le investigazioni aziendali intese come attività di monitoraggio e controllo su dipendenti, sui soci e sulla concorrenza riescono a fornire una garanzia di di risultati per uso legale

Idfox Agenzia Specializzata in Investigazioni Aziendali, Bonifiche Microspie, Cimici, Smartphone a tutela degli interessi di aziende e società. Indagini commerciali, concorrenza sleale, assenteismo, licenziamento per giusta causa, operiamo in tutto il territorio nazionale

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Concorrenza sleale:

 

Ransomware, due aziende su tre sono colpite dal malware che prende i dati in ostaggio. Colpita anche Coca-Cola con richiesta di maxi riscatto

Il 66% delle aziende sono state colpite da un attacco ransomware nell'ultimo anno. Lo evidenzia il nuovo rapporto “State of Ransomware 2022” realizzato a cura di Sophos. Quintuplicato rispetto allo scorso anno il riscatto medio pagato per recuperare i dati, che si attesta sui 812.360 dollari, e il 46% delle aziende i cui dati sono stati criptati a seguito dell’attacco ha deciso di pagare il riscatto.

 

Il Rapporto globale nella sicurezza informatica, analizza l’impatto che il ransomware ha avuto su 5.600 aziende in 31 paesi nel mondo, Italia compresa.

Nel nostro Paese, il 61% del campione di aziende prese in esame nel rapporto è stato colpito da ransomware nell’ultimo anno mentre il 27% si aspetta di essere colpito in futuro. Delle aziende italiane colpite da ransomware, il 63% ha subìto la crittografia dei file, mentre il 26% è riuscito a bloccare l’attacco prima che i dati venissero criptati.

Il 43% ha pagato il riscatto e ha recuperato i propri dati, mentre il 78% dichiara di essere riuscito a recuperare i dati grazie al proprio backup. Tra le aziende italiane che hanno pagato il riscatto, il 24% ha recuperato circa la metà dei propri dati e solo il 3% è riuscito a recuperare la totalità dei dati sottratti dai cybercriminali.

L’entità del riscatto pagato si attesta nella maggior parte dei casi (37% del campione) tra i 100.000 e i 249.999 dollari.

Il 55% delle aziende italiane colpite ha dichiarato che l’impatto sulla propria operatività di business è stato molto alto e che il recovery time è stato fino a 1 settimana per il 36%, fino a un mese per il 34%, mentre solo l’11% del campione ha ripristinato la normalità in meno di un giorno.

Per quanto riguarda l’assicurazione dai rischi cyber, il 47% del campione dichiara che la propria polizza copre anche i danni causati da un attacco ransomware, il 7% pur avendo un’assicurazione cyber non ha copertura per questa tipologia di attacco e il 5% del campione dichiara che la propria azienda non ha un’assicurazione contro i rischi cyber.

 

Nello scenario internazionale, proprio nelle ultime ore è stata data notizia che il gruppo ransomware Stormous ha annunciato di aver colpito la multinazionale Coca-Cola Company, e di aver esfiltrato oltre 160 GB di dati. Il riscatto richiesto all’azienda sarebbe di oltre 64 milioni di dollari statunitensi, ovvero 1,6467000 Bitcoin. A quanto pare, il gruppo di criminali informatici avrebbe anche lanciato prima un sondaggio sul proprio gruppo Telegram chiedendo agli utenti di scegliere il prossimo bersaglio, e la Coca-Cola Company avrebbe “vinto” con oltre il 70% di preferenze.

Consapevole degli enormi rischi che comporta per le imprese che vengono colpite da questo pericoloso tipo di malware, il Gruppo di Lavoro per la sicurezza delle informazioni che opera in seno agli organi competenti, a nelle scorse settimane ha realizzato una specifica infografica a scopo informativo e divulgativo, che è liberamente scaricabile dal sito dell’associazione, e che ha già registrato oltre 1.000 download.

 

 

Concorrenza Sleale. È condannato il lavoratore che, passando da un'azienda a un'altra, trasferisce informazioni riservate di titolarità della prima società. Ma viene condannata anche l'azienda che lo ha assunto se le informazioni vengono scaricate sul pc aziendale e vengono utilizzate per svolgere attività in favore di quest'ultima. Così ha deciso il tribunale di Milano, sezione specializzata impresa, con la sentenza 8246/2019 in un contenzioso che ha visto contrapposto due società e due lavoratori transitati da una all'altra.

 

Concorrenza sleale fra imprenditori: ultime sentenze        N E  W  S

Leggi le ultime sentenze su: concorrenza sleale; effetti distorsivi sul mercato; relazione di interessi tra l'autore dell'atto e l'imprenditore avvantaggiato; rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori; appropriazione o contraffazione di un marchio.

Concorrenza sleale da parte di soggetto diverso dall'imprenditore

Gli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c. presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all'azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l'imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l'attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell'interesse di quest'ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un "pactum sceleris", ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell'esistenza di una relazione di interessi tra l'autore dell'atto e l'imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l'attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043, c.c., ma non un atto di concorrenza sleale.

Cassazione civile sez. I, 12/07/2019, n.18772

Quando si configura la concorrenza sleale?

Nell'interpretazione della clausola generale di cui all'art. 2598 n. 3 c.c., che individua atti di concorrenza sleale nel comportamento di chiunque si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda, rientra la violazione di norme di diritto pubblico.

Tale violazione può avere effetti distorsivi sul mercato nel caso di norme che impongono oneri, quali le autorizzazioni per lo svolgimento di determinate attività, quando il rilascio dell'autorizzazione sia subordinato a condizioni che comportano costi e, pertanto, la violazione della norma consenta un risparmio che rende praticabili alla clientela prezzi più bassi di quelli dei concorrenti.

La violazione può presumersi insussistente ove l'autorizzazione amministrativa sia stata concessa, ma è pur sempre consentito al giudice ordinario, al quale sia richiesto l'accertamento dell'attività di concorrenza sleale nel rapporto fra imprenditori concorrenti, sindacare l'atto amministrativo in via incidentale e, ove ritenuto illegittimo, disapplicarlo.

Corte appello Milano sez. I, 28/05/2019, n.2346

L'azione diretta alla repressione di atti di concorrenza sleale

La collocazione dell'art. 2601 c.c. all'interno della Sezione II del Capo I del Titolo X del Libro V del Codice Civile, dedicata alla concorrenza sleale fra imprenditori, implica che non possono avvalersi del rimedio processuale previsto dalla norma le associazioni fra professionisti.

Tribunale Reggio Emilia sez. I, 27/10/2018

Rilevanza e configurabilità della comunanza di clientela

In tema di concorrenza sleale presupposto indefettibile è, quindi, la comunanza della clientela, la cui sussistenza va verificata anche in una prospettiva potenziale, considerando se l'attività, nella sua dinamicità naturale, consenta di configurare l'esito del mercato fisiologico e prevedibile, sia sul piano temporale che geografico.

L'astratta configurabilità della concorrenza sleale tra due o più imprenditori presuppone il contemporaneo esercizio della stessa attività, industriale o commerciale, in un ambito territoriale potenzialmente comune.

Tribunale Velletri sez. II, 11/09/2018, n.1907

Concorrenza sleale ed esercizio della medesima attività

In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall'identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall'imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.

Cassazione civile sez. I, 18/05/2018, n.12364

Sussistenza della concorrenza sleale

Va ritenuta la sussistenza della concorrenza sleale considerato che l'attività illecita, consistente nell'appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l'uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall'imprenditore concorrente, può essere da quest'ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un'azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un'azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti.

In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell'illecito è la sussistenza di mia situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno.

Tribunale Bari sez. IV, 22/10/2015, n.4525

Situazione di concorrenzialità tra imprenditori

L'astratta configurabilità della concorrenza sleale tra due o più imprenditori presuppone il contemporaneo esercizio della stessa attività, industriale o commerciale, in un ambito territoriale potenzialmente comune, sicché gli articoli di stampa che denigrino un gruppo imprenditoriale non sono neppure giuridicamente inquadrabili negli atti di concorrenza sleale tra la testata giornalistica, pur di rilievo nazionale, ed un gruppo imprenditoriale, la cui attività sia estremamente ampia e ramificata, e non riconducibile al solo settore dell'informazione.

(In applicazione di detto principio, la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di merito di rigetto della domanda risarcitoria, escludendo che la pubblicazione di un articolo in cui si suggeriva una mobilitazione generale contro la normativa disciplinante l'assetto radio-televisivo nazionale, configurasse atto di concorrenza sleale).

Cassazione civile sez. III, 05/02/2015, n.2081

Configurabilità di un atto di concorrenza sleale

La legittimazione passiva in ordine ad una domanda di inibitoria degli atti di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. n. 1 sussiste allorché sussiste una situazione di concorrenzialità; infatti, presupposto giuridico per la legittima configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori e la conseguente idoneità della condotta di uno dei due concorrenti ad arrecare pregiudizio all'altro, pur in assenza di un danno attuale.

Si trovano in concorrenza tra loro tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino in una qualsiasi delle fasi della produzione e del commercio destinata a sfociare nella collocazione sul mercato dei prodotti.

Il diritto esclusivo di un titolare di utilizzare il disegno o il modello e di vietarne l'utilizzo a terzi, può essere fatto valere non solo nei confronti del produttore del prodotto contraffatto ma anche nei confronti dei commercializzatori.

Ai fini della tutela per concorrenza sleale (imitazione servile), occorre che il prodotto imitato sia originale e che gli elementi ripresi non siano né funzionali né comuni per l'oggetto imitato; ed occorre altresì che sia provato il rischio di confusione nel pubblico. Occorre, dunque che i prodotti evochino nel loro complesso un'impressione tale da indurre potenzialmente il pubblico in confusione.

In presenza di elementi concreti di differenziazione tra i prodotti è da escludersi la contraffazione del brevetto, come pure la concorrenza sleale.

Tribunale Roma Sez. Proprieta' Industriale e Intellettuale, 11/06/2008

Pubblicità ingannevole o denigratoria

La pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta. La tutela giurisdizionale ordinaria è ammessa ogniqualvolta la pubblicità ingannevole o denigratoria integri una condotta di concorrenza sleale tra imprenditori. Non è ingannevole lo spot pubblicitario che non induca in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto, cioè sulla natura, qualità, composizione, sul modo di fabbricazione del prodotto stesso. Tale spot non è quindi idoneo a ledere le imprese concorrenti. La lesione delle imprese concorrenti è requisito necessario ex c.c., art. 2598 a configurare l'illecito concorrenziale.

Essendo il fatto lesivo avvenuto anche a Roma, posto che la diffusione dello spot pubblicitario sui canali televisivi avviene a livello nazionale, oltre al Foro del luogo in cui il resistente ha la residenza o il domicilio è anche competente il Tribunale di Roma, nella cui circoscrizione sono stati commessi i fatti lesivi lamentati.

Nelle cause relative ai diritti di obbligazione, il convenuto che eccepisca l'incompetenza territoriale ha l'onere di contestare con il primo atto difensivo la competenza del giudice adito con riferimento a ciascuno dei diversi criteri concorrenti ex art. 18, 19 e 20 c.p.c. la cui scelta spetta all'attore, con la conseguenza che il difetto di tale specifica contestazione comporta che la competenza resta radicata presso il giudice adito in base al profilo non contestato.

Deve essere rigettata l'eccezione di carenza di legittimazione attiva di una federazione, la quale, nella sua qualità di federazione, può agire in proprio a tutela dei propri diritti, al pari degli altri ricorrenti.

Tribunale Roma Sez. Proprieta' Industriale e Intellettuale, 20/07/2006

Soluzioni professionali alternative

Ai sensi dell'art. 1746 c.c. è imposto all'agente di tutelare gli interessi del preponente e di agire con lealtà e buona fede nell'esecuzione dell'incarico. Tuttavia, tale norma non impedisce all'agente - così come al subagente - vincolato da un contratto a tempo indeterminato suscettibile di disdetta, di ricercare soluzioni professionali alternative, che vengano in concreto a risultare pregiudizievoli per il preponente (come nel caso, non infrequente, dell'acquisizione di un mandato di agenzia da parte di un'impresa in concorrenza con l'originario preponente), se non impiega mezzi e modalità che siano di per sé qualificabili come scorretti, vuoi ai fini dell'acquisizione del nuovo incarico professionale, vuoi nell'esecuzione del medesimo, sulla base dei principi di carattere generale in materia contrattuale e, specificamente, di quelli di correttezza e di buona fede nell'esecuzione del rapporto di cui agli art. 1175 e 1375 c.c., ovvero delle regole in tema di concorrenza sleale tra imprenditori.

Né, alla stregua di ciò, può ritenersi di per sé scorretto il comportamento di un subagente che, intenzionato a porre fine al rapporto in corso con l'agente, ne metta al corrente l'imprenditore preponente, offrendo l'occasione al medesimo di valutare le conseguenze di tale ipotesi ed a se stesso la possibilità di comunicare la propria eventuale disponibilità ad assumere un incarico diretto, sempreché non siano posti in essere mezzi di per sé scorretti, poiché, in difetto di precise pattuizioni in proposito, non è ravvisabile un obbligo di fedeltà in capo al subagente nei confronti dell'agente suo preponente che vieti iniziative di questo genere, compiute con il rispetto del principio generale della correttezza.

(Nella specie, la S.C., enunciando il richiamato principio, ha rigettato il ricorso proposto dall'agente e confermato la sentenza impugnata, con la quale era stato escluso che il comportamento del subagente avesse comportato violazione di obblighi derivanti dal contratto di subagenzia, considerato che l'obbligo di cooperazione dell'agente ai fini del raggiungimento degli interessi del suo preponente non comprendeva l'obbligo di restare per sempre vincolato al medesimo, così come neanche il canone generale di correttezza e buona fede poteva impedire all'agente, in mancanza di specifiche clausole contrattuali, di cercare una sistemazione migliore ed eventualmente anche di proporre, nel caso del subagente, le proprie prestazioni direttamente al mandante del proprio preponente).

Cassazione civile sez. lav., 10/05/2006, n.10728

Controversia tra privati imprenditori

In materia di illecito concorrenziale ex art. 2598 comma 1 n. 3, il giudice nazionale è competente a conoscere della controversia tra privati imprenditori concernente l'accertamento di condotte integranti concorrenza sleale anche nella ipotesi in cui l'illiceità derivi dalla violazione della disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato, quando tale aiuto sia attuato in modo abusivo ovvero violando i relativi limiti oggettivi imposti dalla Commissione UE: in siffatte ipotesi ed in attesa delle complesse valutazioni economiche di competenza della Commissione UE, il Giudice nazionale adito dal soggetto che assuma leso il proprio diritto alla corretta competizione sul mercato ex art. 2598 c.c., ove riscontri una obiettiva violazione delle condizioni ed obblighi stabiliti dalla decisione autorizzativa dell'aiuto, ben può provvedere interinalmente ad emanare i provvedimenti cautelari più opportuni al fine di assicurare gli effetti della futura pronuncia di merito.

Tribunale Roma sez. II, 13/03/2006

Protezione dei segni distintivi dell'impresa e concorrenza sleale tra imprenditori

La tutela della propria denominazione e della relativa efficacia distintiva compete anche ai fenomeni associativi in quanto tali, a prescindere dalla protezione accordata dall'ordinamento ai segni distintivi dell'impresa ed avverso la concorrenza sleale tra imprenditori.

Tribunale Milano sez. fer., 11/08/2004

 

oncorrenza sleale, condannato ex agente per sviamento di clientela

 

Per la Corte d'Appello di Bologna è concorrenza sleale il comportamento di un ex agente che ha trasferito informazioni riservate, apprese durante il rapporto d'agenzia, in una nuova società da lui costituita

 La Corte d'Appello di Bologna conferma quanto dichiarato dal Tribunale di Modena e condanna un ex agente al risarcimento danni per atti di concorrenza sleale e sviamento di clientela. Secondo l'articolo 2598, comma 3, del Codice Civile è concorrenza sleale "quell'attività contraria ai principi di correttezza professionale e idonea a danneggiare l'altrui azienda, indipendentemente dall'affettivo verificarsi di un pregiudizio a carico del soggetto passivo".

Il caso in questione riguarda una società, EX agente di , che, insieme ad alcuni ex collaboratori di quest'ultima, ha fondato la società AAAA, sfruttando in modo illecito informazioni riservate e acquisite nel corso del precedente rapporto di agenzia. Nonostante tra la società AAA e la società CCCC non sussistesse alcun vincolo legale o contrattuale di non concorrenza, per il Tribunale di Modena il comportamento di AAA era stato giudicato come atto di concorrenza sleale. Infatti, come dimostrato dai giudici, le informazioni riservate trasferite alla società AAAA non erano patrimonio personale degli ex agenti, ma informazioni che quest'ultimi avevano appreso internamente a Beta, nel corso del rapporto lavorativo, pertanto, sarebbero dovute restare confidenziali e di esclusiva proprietà di AAAA.

 La Corte d'Appello ha sottolineato inoltre la condotta "sistematica e parassitaria" di AAAA nel far confluire la clientela di CCC  nella neo costituita AAAA  e trarne indebitamente vantaggio. Tutt'al più, che le informazioni, usate in modo fraudolento da aaaa, erano espressamente qualificate come "riservate" nel cessato rapporto di lavoro tra AAA e BBBB , nel quale la violazione dell'obbligo di riservatezza legittimava Beta a risolvere il contratto e a chiedere il risarcimento dei danni, anche in assenza del patto di non concorrenza. La Corte ha osservato infine che "quando l'atto di concorrenza sleale sia stato compiuto da chi non sia dipendente dell'imprenditore che ne beneficia, la responsabilità di quest'ultimo viene affermata sulla base della regola dell'art. 2598 n. 3 c.c., che qualifica concorrenza sleale anche l'avvalersi indirettamente dei mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale".

Informatica forense e violazione del segreto aziendale: la sentenza del Tribunale di Bologna

 In caso di violazione dei segreti aziendali da parte di ex dipendenti, il Tribunale di Bologna ha confermato la liceità delle aziende di avvalersi di un informatico forense per reperire prove utili in sede di giudizio

 I segreti aziendali fanno parte del patrimonio di un'azienda ed oggi più che mai è fondamentale tutelarli perché non finiscano in mani sbagliate (come ad esempio hacker) o alla concorrenza. Molto spesso però, chi dovrebbe salvaguardarne la segretezza finisce con l'usufruirne per un proprio tornaconto: si tratta di dipendenti infedeli o ex dipendenti che violano il patto di non concorrenza. Il caso in questione riguarda un'azienda, titolare di brevetti nel campo degli avvitatori automatici, che si è vista soffiare informazioni sensibili e riservate da tre ex dipendenti dimessisi volontariamente nel settembre del 2017. A seguito delle dimissioni, i tre avevano avviato una collaborazione con un gruppo costituito da tre società operanti anch'esse nel settore.

 Tuttavia, la "vecchia" azienda era venuta a sapere che una delle tre società del gruppo aveva formulato "ordinativi di componenti con caratteristiche pressoché identiche ai propri". Una volta verificato il coinvolgimento degli ex dipendenti con le suddette società, ha incaricato un'agenzia investigativa per svolgere le indagini allo scopo di accertare le irregolarità . Dalle indagini è emerso che i tre avevano prelevato e copiato, anche nel periodo antecedente alle rispettive dimissioni, informazioni aziendali riservate, sia di natura commerciale che tecnica.

 Il caso è finito al Tribunale Ordinario di Bologna. I tre ex dipendenti hanno presentato ricorso, lamentando la mancata legittimità da parte della "vecchia" azienda di avvalersi di un'agenzia investigativa in barba ai diritti sulla privacy. Il Tribunale di Bologna, con l'ordinanza del 12 novembre 2018, ha respinto il ricorso avvallando l'attività svolta dall’agenzia investigativa  incaricati dall' ex azienda, "in quanto le modalità di acquisizione dei dati non hanno comportato l'accesso ad account privati di posta degli ex dipendenti e i dati sono stati rinvenuti all'interno dell'hardware della ricorrente, poiché trasfusi dall'interessato sul pc aziendale tramite backup dell'Iphone". La sentenza ha confermato quindi la possibilità da parte delle aziende, soggette ad abuso o furto dei segreti aziendali, di avvalersi di una società investigativa “autorizzata ”  per reperire prove che verifichino la colpevolezza o meno di dipendenti infedeli o ex dipendenti.

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Informatica forense e violazione del segreto aziendale: la sentenza del Tribunale di Bologna

In caso di violazione dei segreti aziendali da parte di ex dipendenti, il Tribunale di Bologna ha confermato la liceità delle aziende di avvalersi di un informatico forense per reperire prove utili in sede di giudizio

I segreti aziendali fanno parte del patrimonio di un'azienda ed oggi più che mai è fondamentale tutelarli perché non finiscano in mani sbagliate (come ad esempio hacker) o alla concorrenza. Molto spesso però, chi dovrebbe salvaguardarne la segretezza finisce con l'usufruirne per un proprio tornaconto: si tratta di dipendenti infedeli o ex dipendenti che violano il patto di non concorrenza. Il caso in questione riguarda un'azienda, titolare di brevetti nel campo degli avvitatori automatici, che si è vista soffiare informazioni sensibili e riservate da tre ex dipendenti dimessisi volontariamente nel settembre del 2017. A seguito delle dimissioni, i tre avevano avviato una collaborazione con un gruppo costituito da tre società operanti anch'esse nel settore degli avvitatori automatici, perciò concorrenti.

Tuttavia, la "vecchia" azienda era venuta a sapere che una delle tre società del gruppo aveva formulato "ordinativi di componenti con caratteristiche pressoché identiche ai propri". Una volta verificato il coinvolgimento degli ex dipendenti con le suddette società, ha incaricato un'agenzia di consulenza informatica allo scopo di analizzare i computer aziendali utilizzati precedentemente dagli ex dipendenti. Dalle indagini è emerso che i tre avevano prelevato e copiato, anche nel periodo antecedente alle rispettive dimissioni, informazioni aziendali riservate, sia di natura commerciale che tecnica.

Il caso è finito al Tribunale Ordinario di Bologna. I tre ex dipendenti hanno presentato ricorso, lamentando la mancata legittimità da parte della "vecchia" azienda di avvalersi di un'agenzia di consulenza informatica, in barba ai diritti sulla privacy. Il Tribunale di Bologna, con l'ordinanza del 12 novembre 2018, ha respinto il ricorso avvallando l'attività svolta dagli informatici forensi incaricati dall' ex azienda, "in quanto le modalità di acquisizione dei dati non hanno comportato l'accesso ad account privati di posta degli ex dipendenti e i dati sono stati rinvenuti all'interno dell'hardware della ricorrente, poiché trasfusi dall'interessato sul pc aziendale tramite backup dell'Iphone". La sentenza ha confermato quindi la possibilità da parte delle aziende, soggette ad abuso o furto dei segreti aziendali, di avvalersi di una società di consulenza informatica per reperire prove che verifichino la colpevolezza o meno di dipendenti infedeli o ex dipendenti.

 

 

 

Patto di non concorrenza: ultime sentenze

Leggi le ultime sentenze su: patto di non concorrenza e nullità; lavoro subordinato; concorrenza sleale; autotutela del danneggiato; contratto di agenzia; contratto di somministrazione; clausola di opzione; corrispettivo per la formazione professionale ricevuta.

Indice

* 1 Patto di non concorrenza: natura obbligatoria

* 2 Patto di non concorrenza: quando c'è violazione?

* 3 Patto di non concorrenza post contrattuale: quando è nullo?

* 4 Patto di non concorrenza: attività lavorative vietate

* 5 Proprietà intellettuale e condotta sleale

* 6 Contratto di agenzia: indennità per patto di non concorrenza

* 7 Obbligazione di fare: cosa può avere ad oggetto?

* 8 Professionalità acquisita dal soggetto

* 9 Clausola di esclusiva inserita in un contratto di somministrazione

* 10 Onerosità del patto di non concorrenza

* 11 Clausola di opzione di patto di non concorrenza

Patto di non concorrenza: natura obbligatoria

Il patto obbligatorio di non concorrenza, consistente in un vincolo di modo nell'utilizzo di un cespite immobiliare, astringe il soggetto che l'ha stipulato, ma non il suo avente causa; esso, per produrre effetti anche nei confronti del nuovo acquirente, deve essere specificamente richiamato nell'atto di acquisto del terzo, in quanto la realità di un vincolo può configurarsi solo ove sia ipotizzabile un rapporto tra fondi mentre l'esclusione della concorrenza è utile non al fondo acquistato ma all'azienda che l'acquirente esercita su esso cosicché deve escludersi la sussistenza di una servitù.

Cassazione civile sez. II, 17/11/2017, n.27321

Patto di non concorrenza: quando c'è violazione?

Il patto di non concorrenza, previsto dall'art. 2125 cod. civ., può riguardare una qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso, perciò, è nullo solo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale.

Di conseguenza, ciò che rileva è l'attività svolta dai due diversi datori di lavoro: se l'ambito in cui essa si esplica è il medesimo, le due imprese devono essere ritenute in concorrenza, e, di conseguenza, l'ex dipendente che collabori con la seconda viola il patto di non concorrenza sottoscritto con la prima.

Corte appello Perugia sez. lav., 15/10/2018, n.142

Patto di non concorrenza post contrattuale: quando è nullo?

Va dichiarata la nullità del patto di non concorrenza post contrattuale per indeterminabilità ex ante del compenso pattuito quale corrispettivo della limitazione d'attività posta a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto. A tale riguardo, va evidenziato che l'art. 2125 c.c prevede che il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

Ciò perché il patto di non concorrenza, anche se stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, è pienamente autonomo, rispetto a quest'ultimo, sotto il profilo causale; di conseguenza il corrispettivo in esso stabilito, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere soltanto i requisiti richiesti, in via generale, per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 cod. civ. in relazione al successivo art. 1418 cod. civ. ed, in particolare, il requisito della determinatezza o della determinabilità. Pertanto la previsione di un compenso commisurato ad una percentuale della retribuzione mensile e da erogarsi con la medesima periodicità di questa, in mancanza di una espressa previsione di un congruo livello minimo del corrispettivo, non risponde al requisito di determinabilità imposto dagli artt. 1346 e 2125 c.c..

 

Obbligazione di fare: cosa può avere ad oggetto?

Una obbligazione di fare, pur non normativamente definita, può avere ad oggetto, per sua stessa natura, esclusivamente, il compimento di attività materiali che implichino l'impiego, da parte del soggetto debitore, delle proprie energie fisiche e/o psichiche a favore del creditore; si pensi, ad esempio, alla costruzione di una casa o allo svolgimento di una prestazione professionale. In senso eguale e contrario, una prestazione di non fare può, allora, avere quale oggetto l'omesso compimento di una determinata attività qualificabile come facere; si pensi, in questo caso, all'obbligazione di non costruire o al patto di non concorrenza.

Tali definizioni si riscontrano nei caratteri generali espressamente delineati dagli articoli 2931 e 2933 del codice civile in tema di esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, strumento attraverso il quale il creditore riesce ad ottenere esattamente la prestazione che gli sarebbe stata dovuta da parte del debitore. In particolare, l'articolo 2931 c.c. specifica che, se il soggetto che vi è tenuto non adempie ad un obbligo di fare, l'avente diritto può adire l'autorità giudiziaria per ottenere che detto obbligo venga eseguito a spese dell'obbligato, secondo le forme e le modalità previste dal codice di procedura civile, agli articoli 612 e seguenti. Allo stesso modo, l'articolo 2933 c.c. prevede che, se non viene eseguito un obbligo negativo, ovverosia di non fare, l'avente diritto può ottenere che ciò che è stato fatto in violazione del predetto obbligo venga distrutto a spese dell'obbligato.

Tribunale Verbania, 08/02/2018, n.600

Professionalità acquisita dal soggetto

In tema di concorrenza sleale, è nullo per contrasto con l'ordine pubblico costituzionale il patto di non concorrenza, diretto a precludere ad una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento, ovvero di comprimere eccessivamente la libertà della capacità lavorativa del soggetto obbligato.

Il patto di non concorrenza deve, dunque, consentire al soggetto obbligato di espletare un'attività coerente con la propria esperienza e la propria professionalità e deve ritenersi nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere l'esplicazione della professionalità acquisita dal soggetto.

Tribunale Bologna sez. IV, 13/10/2017, n.2222

Clausola di esclusiva inserita in un contratto di somministrazione

La clausola di esclusiva inserita in un contratto di somministrazione, non è soggetta al limite di durata quinquennale previsto dall'art. 2596 cod. civ. per gli accordi limitativi della concorrenza, a meno che non possa qualificarsi come un autonomo patto, nel qual caso però il limite temporale di validità del patto di non concorrenza non si estende alla durata del contratto di somministrazione.

Tribunale Arezzo, 03/07/2017, n.789

Onerosità del patto di non concorrenza

È legittimo il patto di non concorrenza che non preveda un corrispettivo, ove sia stato stipulato prima dell'entrata in vigore dell'articolo 1751-bis del Cc e anche se il contratto di agenzia cui si riferisce sia cessato successivamente; in mancanza di una disciplina transitoria, infatti, la legge non dispone che per l'avvenire e non ha effetto retroattivo. Anche nel vigore della nuova disciplina, la naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile, in quanto non presidiata da una sanzione di nullità espressa e non diretta alla tutela di un interesse pubblico generale.

Cassazione civile sez. lav., 31/05/2017, n.13796

Clausola di opzione di patto di non concorrenza

E' illegittima la clausola di opzione, accedente al patto di non concorrenza, che il lavoratore attribuisce al datore di lavoro a fronte di un corrispettivo per la formazione professionale ricevuta, in quanto tale formazione costituisce già la causa del contratto di lavoro subordinato stipulato, sicchè quella clausola determina un'illecita sperequazione della posizione delle parti nell'ambito dell'assetto negoziale e la violazione della natura contrattuale dell'opzione.

Cassazione civile sez. lav., 04/04/2017, n.8715

 

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Sentenze

L'art. 2598 c.c. disciplina le forme della concorrenza sleale nell'ambito del Capo I del Titolo X relativo alla disciplina della concorrenza. L'art. 2598 c.c. prevede comportamenti tipici di concorrenza sleale ed una clausola generale idonea ad abbracciare comportamenti, anche non tipizzati, che, tuttavia, integrino gli estremi della concorrenza sleale. Costituiscono comportamenti tipici di concorrenza sleale: l'uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri e l'imitazione servile dei prodotti di un concorrente.
Del pari costituiscono atti di concorrenza sleale la diffusione di notizie ed apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito o l'appropriazione dei pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente. L'art. 2598 c.c., come detto, contempla, infine, una clausola generale idonea a ricomprendere tutti gli ulteriori atti di concorrenza sleale non tipizzati. Costituisce, così, concorrenza sleale il valersi di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'azienda altrui. I principali rimedi contro gli atti di concorrenza sleale sono contemplati agli artt. 2599 c.c. e 2600 c.c. dove si prevede che la sentenza che accerta il compimento di atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione edà gli opportuni provvedimenti per eliminarne gli effetti. L'art. 2600 c.c., infine, prevede che chiunque sia danneggiato da atti di concorrenza sleale posti in essere con dolo o colpa possa naturalmente chiedere il risarcimento del danno. La normativa codicistica sulla concorrenza sleale 

Codice Civile Art. 2598
Atti di concorrenza sleale.
Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi [ 2563 ss., 2569 ss.] e dei diritti di brevetto [ 2584 ss.], compie atti di concorrenza sleale chiunque:
1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
Art. 2599
Sanzioni.
La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinchè ne vengano eliminati gli effetti [ 2600].
Art. 2600
Risarcimento del danno.
Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l'autore è tenuto al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume. Vedi la giurisprudenza sulla concorrenza sleale 

Il vasto contenzioso in materia di concorrenza sleale si è occupato, soprattutto, del problema relativo alla riconduzione di determinati comportamenti nell'ambito della concorrenza lecita o di quella sleale. La concorrenza sleale, infatti, presuppone la situazione di concorrenza tra aziende, il reiterarsi dei comportamenti illeciti ed il verificarsi di un danno effettivo. La giurisprudenza ha, poi, avuto modo di concentrarsi soprattutto su specifiche tipologie di atti di concorrenza sleale come, ad esempio, l'imitazione servile di prodotti dell'altrui azienda, lo storno dei suoi dipendenti, lo sviamento di clienti da parte di ex dipendenti o di ex agenti. 

concorrenza sleale: la necessità del danno 

La responsabilità a titolo di concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598, n. 3, c.c., presuppone che l'imprenditore si sia avvalso di un mezzo, non soltanto contrario ai principi della correttezza professionale, ma anche idoneo a danneggiare l'altrui azienda; pertanto detta responsabilità non opera allorché il giudice accerti che il comportamento denunciato non abbia provocato alcun pericolo di sviamento di clientela in danno dell'imprenditore denunciante. (Fattispecie in tema di uso, da parte di un imprenditore, al fine di reclamizzare infissi anodizzati, del catalogo di un concorrente, produttore di infissi nella fase anteriore all'anodizzazione). 

Cassazione civile , sez. I, 02 aprile 2007 , n. 8215 

concorrenza sleale: necessario il reiterarsi della condotta incriminata 

Presupposto per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno per concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c., è la prova della reiterazione nella condotta incriminata e, quindi il carattere permanente del comportamento concorrenziale in sé considerato e del relativo illecito. Mentre l’isolato comportamento illecito comprovato di per sé non costituisce fatto idoneo a determinare la prevalenza sul mercato di uno specifico prodotto in pregiudizio di un altro per concorrenza sleale. 

Tribunale Torino, 17 novembre 2006
concorrenza sleale: storno dei clienti da parte di un ex dipendente 

Costituisce condotta di concorrenza sleale lo storno di clienti di un'impresa effettuato da un ex dipendente avvalendosi di informazioni riservate (nella specie, il tribunale ha accertato l'illecito di una società attiva nel settore dell'informatica, che ha sistematicamente contattato i clienti di un concorrente, utilizzandone le liste, e a mezzo di suoi ex dipendenti, che già conoscevano quei clienti, ed inoltre avvalendosi di notizie riservate su un programma software per la gestione delle buste paga, fornito dal concorrente ai propri clienti — pure conosciute in ragione di precedenti rapporti di lavoro subordinato — così rendendosi più agevole il trasferimento dei dati altro analogo programma). 

Tribunale Torino, 17 novembre 2006
concorrenza sleale mediante l'uso di segni distintivi identici 

L’attività illecita, consistente nell’approvazione o nella contraffazione di un marchio,mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditore concorrente, può essere da quest’ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove il comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti. 

Tribunale Ferrara, 25 settembre 2006 , n. 1177
concorrenza sleale mediante pubblicazione sistematica di informazioni e notizie redatte da altri 

Costituisce atto di concorrenza sleale la pubblicazione o riproduzione sistematica e parassitaria, a scopo di lucro, di informazioni o notizie il cui sfruttamento spetta ad altri (nella specie, la Suprema corte ha confermato, ritenendola immune da vizi logici e giuridici, la decisione di merito che ha affermato l'illiceità della sistematica pubblicazione, in una rassegna stampa diffusa in via telematica, di articoli tratti da pubblicazioni periodiche altrui, per i quali l'editore aveva formulato espressa riserva ai sensi dell'art. 65 Ld.a.). 

Cassazione civile , sez. I, 20 settembre 2006 , n. 20410 concorrenza sleale per imitazione servile - necessarie le forme esteriori individualizzanti 

L’ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile è integrata dall’imitazione di forme esteriori del prodotto avversario che abbiano valore individualizzante (cioè non siano forme banali e generalizzate) e che non siano necessitate dalla funzionalità propria del prodotto, sicché il Giudice é chiamato a valutare se i particolari imitati siano o meno standardizzati, e quindi se essi siano imprescindibilmente legati alla costruzione del manufatto, ovvero se sia astrattamente possibile operare al riguardo una serie, più o meno estesa, di varianti. 

Tribunale Torino, sez. fer., 14 settembre 2006 un caso di concorrenza sleale 

La totale riproduzione grafica della fotografia di un prodotto in un catalogo commerciale può costituire concorrenza sleale per scorrettezza professionale, ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. 

Tribunale Torino, sez. fer., 14 settembre 2006 concorrenza sleale per vendita sottocosto 

La c.d. vendita sottocosto configura un atto di concorrenza sleale (c.d. "dumping interno") qualora comporti il sistematico svolgimento antieconomico dell'attività d'impresa e l'artificioso abbattimento sotto costo dei prezzi, non giustificato dalle condizioni obiettive della produzione. 

Tribunale S.Maria Capua V., 18 agosto 2006 concorrenza sleale: l'uso di ex agenti 

Costituisce condotta di concorrenza sleale, per contrasto con i principi della correttezza professionale, di cui va disposta anche in via cautelare la inibitoria, quella tenuta da un'impresa che, in tal modo sottraendo clienti ad un concorrente, si avvale dell'opera di un ex agente di quest'ultimo, con violazione del patto di non concorrenza anteriormente stipulato da tali soggetti. 

Tribunale Vercelli, 12 luglio 2006
concorrenza sleale: uso delle informazioni acquisite da ex dipendenti 

L'utilizzazione delle informazioni acquisite dal dipendente nell'ambito di una precedente esperienza lavorativa (nella specie, il nominativo dei clienti e la loro conoscenza), non rappresenta un atto di concorrenza sleale, salvo che non si tratti di un segreto professionale in senso proprio. 

Tribunale S.Maria Capua V., 20 giugno 2006 concorrenza sleale La concorrenza sleale per imitazione servile è configurabile in presenza di due specifici presupposti, e cioè l'originalità del prodotto imitato (nel senso che la forma dello stesso deve avere valore individualizzante, estrinsecandosi in un quid che la renda idonea ad essere riconosciuta nel pubblico come elemento sintomatico di provenienza del prodotto cui accede da una determinata impresa) e l'assenza di qualsiasi elemento distintivo idoneo a palesare la diversa provenienza di un prodotto rispetto all'altro, secondo un apprezzamento che va riferito ai consumatori dei prodotti concretamente considerati. 

Tribunale Monza, 10 aprile 2006
concorrenza sleale per imitazione servile - necessarie l'originalità del prodotto imitato 

La concorrenza sleale per imitazione servile è configurabile in presenza di due specifici presupposti, e cioè l'originalità del prodotto imitato (nel senso che la forma dello stesso deve avere valore individualizzante, estrinsecandosi in un quid che la renda idonea ad essere riconosciuta nel pubblico come elemento sintomatico di provenienza del prodotto cui accede da una determinata impresa) e l'assenza di qualsiasi elemento distintivo idoneo a palesare la diversa provenienza di un prodotto rispetto all'altro, secondo un apprezzamento che va riferito ai consumatori dei prodotti concretamente considerati. 

Tribunale Monza, 10 aprile 2006
concorrenza sleale: necessaria la concorrenza tra aziende ma l'atto può essere posto in essere anche da un soggetto terzo 

La concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza e non è configurabile, pertanto, ove manchi tale presupposto soggettivo (il cosiddetto "rapporto di concorrenzialità"); la stessa è però configurabile allorquando l'atto lesivo del diritto del concorrente sia posto in essere dal soggetto terzo (cosiddetto interposto) che tuttavia si trovi in una relazione di interessi comuni con l'imprenditore avvantaggiato. (Nella specie l'azione di danni era stata intrapresa anche nei confronti della azienda telefonica che aveva concesso alla convenuta ditta concorrente, sita nelle vicinanze e costituita da un ex dipendente della ditta attrice, lo stesso numero di utenza telefonica che prima era stato in uso all'attrice medesima; la S.C. ha dunque confermato la sentenza della corte di merito che aveva mandato assolta la azienda telefonica da responsabilità contrattuale ed extracontrattuale e che aveva altresì escluso, con motivazione ritenuta dalla S.C. completa e ragionevole, tale da essere incensurabile in sede di legittimità, il concorso per atti di concorrenza sleale, stante la mancanza della qualità di imprenditore commerciale concorrenziale e di una relazione di interessi comuni con l'imprenditore concorrente avvantaggiato). 

Cassazione civile , sez. III, 20 marzo 2006 , n. 6117
un caso di concorrenza sleale in ipotesi di cessione di ramo d'azienda 

È contrario ai principi della correttezza professionale ex art. 2598, n. 3, c.c. il comportamento dell'ex dipendente di una società che, approfittando della cessione di un ramo d'azienda della ex datrice di lavoro ad un'altra società, induca la clientela della società scorporata a credere che la nuova referente per la distribuzione dei prodotti della sua ex datrice di lavoro sia la nuova società alle cui dipendenze nel frattempo egli si è trasferito e non la società cessionaria del ramo d'azienda, reale destinataria "de iure". Tribunale Torino, sez. IX, 03 marzo 2006 , n. 3194 concorrenza sleale per imitazione servile - necessarie l'imitazione delle forme esteriori individualizzanti 

In tema di concorrenza sleale, l'imitazione rilevante ai fini della concorrenza sleale per confondibilità non si identifica con la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo con quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante e cioè idonee, proprio in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa. In ogni caso, non si può attribuire carattere individualizzante alla forma funzionale, cioè a quella resa necessaria dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto. Pertanto, la fabbricazione di prodotti identici nella forma a quelli realizzati da impresa concorrente (che non fruisca più, per essi, della scaduta tutela brevettuale, o comunque non la invochi), costituisce atto di concorrenza sleale soltanto se la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto, ma investa caratteristiche del tutto inessenziali alla relativa funzione; se, infatti, non ricorre una privativa a tutela di una determinata funzione e di una determinata forma, alla libera riproducibilità della funzione corrisponde la altrettanto libera riproducibilità della forma che, necessariamente, la realizza . 

Cassazione civile , sez. I, 19 gennaio 2006 , n. 1062
concorrenza s

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Appropriazione di file aziendali: cosa si rischia?

Licenziamento e responsabilità penale per il reato di appropriazione indebita in capo al dipendente che fa il backup dei file o che trasferisce i dati informatici dal computer aziendale a quello personale (anche tramite email).

Non è infrequente che un dipendente faccia il backup dei dati salvati nel computer aziendale su cui ha lavorato per anni. E lo faccia, ovviamente, non certo per “ricordo” ma per avvalersene in una eventuale successiva attività “in proprio” o alle dipendenze di un concorrente. Ebbene, cosa si rischia per l’appropriazione di file aziendali? Di tanto si è occupata più volte la giurisprudenza. Ecco una sintesi delle principali pronunce che si sono occupate di questo spinoso argomento.

Indice

* 1 Furto di documento e backup di file aziendali

* 2 Accesso abusivo a sistema informatico

* 3 Appropriazione indebita

Furto di documento e backup di file aziendali

Secondo una recente sentenza della Cassazione [1] è legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore che abbia sottratto documenti aziendali contenenti informazioni “sensibili” relative all’esercizio dell’attività d’impresa (‘know-how’).

La regola in materia di licenziamento è quella secondo cui intanto si può risolvere il rapporto di lavoro in quanto il comportamento viene ritenuto così grave da ledere definitivamente il rapporto di fiducia che deve sussistere tra datore e dipendente. Tuttavia, nel caso di furto di documenti o appropriazione di file aziendali, ai fini della valutazione della gravità della condotta non ha rilievo alcuno la natura del materiale sottratto, ossia la circostanza che il lavoratore non abbia potuto trarre un’effettiva utilità dalla documentazione (si pensi a file ormai datati e privi di alcun valore commerciale). Infatti, secondo la Cassazione, basta accertare la provenienza aziendale del materiale sottratto: già tale comportamento, a prescindere dalle ripercussioni economiche per il datore e dalla utilizzabilità dei documenti, può definirsi sufficientemente grave per far perdere ogni rapporto di fiducia nel corretto operato del lavoratore. 

Né rileva – aggiunge la Corte – che i file “backuppati” o la documentazione sottratta sia di normale consultazione o che ne sia consentita l’asportazione al di fuori dei locali aziendali. Anche qui vale lo stesso ragionamento di prima: basta il semplice fatto di aver voluto utilizzare per scopi extralavorativi il materiale per configurare come grave il comportamento e quindi passibile di sanzione disciplinare.

Ai fini dell’adozione del licenziamento rileva, quindi, la sola provenienza aziendale della documentazione.

L’orientamento non è nuovo. Già in passato, la Cassazione [2] aveva confermato il licenziamento di un lavoratore sorpreso mentre trasferiva su una pen-drive di sua proprietà un numero consistente di file informatici e dati appartenenti all’impresa. Anche in tal caso è stata riconosciuta la legittimità del licenziamento del lavoratore. In tale occasione, i giudici hanno rilevato che, per poter parlare di illecito disciplinare e applicare la relativa sanzione espulsiva, non rileva che:

* i dati non siano stati divulgati a terzi: basta la semplice sottrazione;

* i dati non siano protetti da password. Difatti la circostanza che al lavoratore sia consentito accedere alla documentazione non lo autorizza ad appropriarsene, «creando delle copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro».

Accesso abusivo a sistema informatico

Passiamo dall’ambito civile a quello penale. Un reato spesso commesso in ambito aziendale è quello di accesso abusivo a sistema informatico. Si verifica tutte le volte in cui un dipendente acceda alla postazione di un collega per reperire dati a cui altrimenti, dal proprio computer, non avrebbe accesso. Stesso discorso nel caso in cui, tra i due colleghi, vi sia cooperazione, sicché l’uno invii all’altro i file o le informazioni in questione [3].

L’accesso al sistema informatico della società non è uguale per tutti: alcuni infatti possono consultare tutte le informazioni di “base” della clientela (nomi, cognomi, indirizzo, tipologia di contratto, ecc.); altri invece hanno la possibilità di visualizzare ulteriori dati più riservati, anche sensibili come ad esempio il reddito dichiarato, eventuali rischi collegati alla persona e alla sua attività, trascorsi penali, ecc.

Se un dipendente ha bisogno di analizzare alcune informazioni relative a un cliente e il suo computer non dispone delle autorizzazioni necessarie per visualizzare l’intera scheda, potrebbe chiedere a un collega di inoltrargli il file dalla sua postazione, invece abilitata a tale verifica.

Quest’ultimo potrebbe, anche solo per mera cortesia, “girare” la mail con l’allegato. Tale condotta può costituire reato? Assolutamente sì. Lo hanno confermato anche le Sezioni Unite [4] secondo cui integra il delitto di accesso abusivo a sistema informatico la condotta di «colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso». Sono «irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema». Lo stesso reato scatta nei confronti di chi, «pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita» [5]. 

Secondo i giudici della Cassazione, dunque, in base agli orientamenti delle Sezioni unite, deve ritenersi responsabile di accesso abusivo al sistema informatico anche colui che abbia fatto sorgere il proposito criminoso nel collega (autore materiale del reato), istigandolo all’invio delle email contenenti informazioni riservate cui egli non poteva accedere perché non abilitato dal datore di lavoro in ragione del fatto che la conoscenza di tali informazioni non era necessaria ai fini dello svolgimento dei suoi compiti.

Appropriazione indebita

Sempre secondo la Suprema Corte [6], si può parlare di responsabilità penale del lavoratore per il reato di appropriazione indebita nel caso in cui questi restituisca al datore di lavoro il computer aziendale formattato, dopo aver copiato i dati ivi contenuti su un dispositivo personale.

Il reato di appropriazione indebita punisce con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 1.000,00 a 3.000,00 euro chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropri di una cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Ai fini dell’integrazione degli estremi del reato, il soggetto deve quindi indebitamente appropriarsi di una ‘cosa mobile’ altrui. E tale anche la cosa immateriale, come un un dato informatico o un file contenuto in un computer, anche se dato in dotazione al dipendente dall’azienda stessa. I file infatti continuano ad essere di proprietà dell’azienda stessa.

Naturalmente, il reato di appropriazione indebita non richiede necessariamente il backup dei file su una pen-drive. Ben potrebbe configurarsi la responsabilità penale per il semplice fatto di inviare i file tramite email dall’account aziendale a quello personale in modo da salvarli poi a casa su un altro hard disk.

 

note

[1] Cass. sent. n. 2402/22 del 27.01.2022.

[2] Cass. sent. n. 25147/17 del 24.10.2017. 

[3] Cass. sent. n. 565/2018.

[4] Cass. S.U. 27 ottobre 2011, n. 4694

[5] Cass. S.U. 18 maggio 2017, n. 41210.

[6] Cass. sent. 10 aprile 2020, n. 11959.